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ROSARIO BRUNO / "Quanto dura una memoria di cartapesta?"

 

Entrare nello studio e nel magazzino di Rosario Bruno è come entrare nella testa di un uomo: sembra che tutta la sua memoria sia custodita lì, sotto forma di immagini tangibili che letteralmente affiorano dalla superficie e ci vengono incontro. La sua forma espressiva, cioè, è qualcosa che va ancora più a fondo di quanto si potrebbe leggere di primo acchito, vale a dire la cultura popolare della cartapesta utilizzata per creare immagini. Questa interpretazione, che pure esiste ed è legittima, non è unica: certo, non negheremo il piacere e l’invenzione di stampo folklorico, nobilitate a strumento d’arte, e portate a un livello espressivo davvero elevato e complesso (questa tecnica, di solito, deve risultare grottesca nelle sue manifestazioni corali e popolari…), tuttavia crediamo anche che questo modo vada oltre l’ambito locale, in cui viene riconosciuto come proprio, come pertinente e appartenente alla cultura del luogo, così come si è venuta radicando nel corso dei secoli. L’operazione di Bruno è più sottile: quello strumento che si è trovato sotto mano non è stato utilizzato solo perché peculiare di una cultura che l’artista non disconosce, ma soprattutto perché è congeniale a ciò che vuole esprimere. Ho la netta sensazione, infatti, che questo accumulo di immagini nasconda il timore dell’oblio, della caducità delle cose del mondo, e che il compito dell’artista – almeno, il compito che Bruno di è dato – sia quello di preservarle, nonostante la povertà dei mezzi umani, significata dall’uso di uno strumento anch’esso caduco. In altre parole, l’uso della cartapesta sarebbe una sorta di farmaco omeopatico, nei confronti della memoria: si usa qualcosa di caduco per combattere la caducità. In quel grande magazzino teatrale che è la memoria, ci si trova di tutto, ma alla rinfusa: dai ritratti dei filosofi antichi ai simboli delle carte da gioco, dall’immagine stereotipata delle famiglie di un tempo agli agglomerati astratti derivati dall’intreccio di frammenti di oggetti, e ogni cosa è pronta per essere “messa in scena”, cioè per essere riportata sul piano della coscienza. Così, le immagini di Bruno sono veri e propri “affioramenti”, come si diceva sopra: persino la loro tridimensionalità da basso o altorilievo contribuisce all’idea di affioramento, se si immagina la superficie dell’opera come l’orizzonte degli eventi, e quelle leggere protuberanze come il “corpo” della memoria che si mostra alla consapevolezza. Ma nello stesso momento non si può prescindere dalla materia di cui è fatta questa memoria visibile: materia leggera, delicata, anche un poco approssimativa, dove i particolari si perdono … Come fosse un avvertimento: tutto ciò che vedete qui, è qualcosa di fragile, è qualcosa che potrebbe scomparire velocemente, che potrebbe ritornare in un attimo in quel secchio dove la carta si macera, e che è il nostro personale e  domestico caos.

                                                                                                                                                                                                                 Marco Meneguzzo

 

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